Эрнесто


Mattina, sette meno venti.
Nella città più grande di uno strano pezzo di terra a forma di stivale Enrico si sveglia, e subito pensa che la sua giornata sarà lunga e complessa. Come da poco più di un mese a questa parte sono tutte.
Enrico inforca gli occhiali e si guarda allo specchio. La testa rasata di fresco e la faccia pulita da bravo ragazzo le ha da sempre. Controlla poi quella ruga in mezzo alla fronte che ogni giorno gli sembra più pronunciata, un segno inequivocabile di una recente, quanto indesiderata, responsabilità.

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Notte, forse la quinta o sesta rotazione dell'anello esterno.
E' difficile stabilire con esattezza un orario, qui nello spazio è sempre buio. La capsula urta un piccolo asteroide e Эрнесто si sveglia di colpo, sbalzato fuori dal sedile.
Si era addormentato alla guida, ma il pilota automatico ha fatto il suo dovere e la strada è ancora quella giusta. Non fosse stato per quel dannato pezzo di roccia avrebbe potuto svegliarsi direttamente sotto casa sua. Si stropiccia gli occhi, uno alla volta. Uno, due. Tre, quattro e cinque. Sente ancora molto male addosso, dalla coda fino alla punta dei gangli delle antenne. Quasi quasi si pente di essere andato a trovare il fratello. Lui e i suoi amici sono ancora troppo giovani, e la loro vita da universitari non è più adatta a Эрнесто, che da tempo ormai ha un lavoro stabile e ha messo le teste a posto. 
 
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Enrico si fa un caffé con la sua nuova macchina espresso, poi esce e si avvia a piedi verso il Palazzo. Da quando è a capo del suo Paese ha smesso di prendere il caffé al bar di Emilio sotto casa, visto che ogni volta ad aspettarlo c'è la solita seccatura, una calca di microfoni e telecamere in cerca di una qualsiasi parola.
Il quartiere Testaccio non è vicinissimo al centro, ma Enrico non ha voluto trasferirsi nella residenza che solitamente spetta al capo del governo. Sta bene qui, e in fondo non gli dispiace passeggiare sul Lungotevere la mattina presto. Anzi, se pensa a quello che lo aspetta anche oggi, sarà forse l'unico momento sereno della giornata.

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Эрнесто butta giù una pasticca, ma la sbornia non accenna a diminuire. Gli gira tutto e sente come dei colpi martellanti sulle tempie.
Era sempre stata così piccola ed opprimente quella capsula? Non ne ha mai comprata una più grossa, sebbene col suo attuale stipendio ormai potrebbe permettersela. Ma in fondo è affezionato a quel catorcio, gli dispiacerebbe disfarsene.
Glielo aveva detto, il fratello, di restare a dormire da lui. C'era pure quella sua coinquilina, quella studentessa proprio carina, specializzanda in Teorie della Trasmissione Neuroelettrica, che sembrava aver manifestato un qualche interesse. Ma lui, testardo come al solito, si era messo comunque in viaggio. Adesso però il senso di nausea e le vertigini si mischiano al pentimento per non avere accettato, e l'assenza di gravità non aiuta di certo, in questi casi.
Accende lo stereo. Magari con un po' di musica classica riesce a rilassarsi quel tanto che basta per tornare a dormire. La Sinfonica Ophiuchus invade l'abitacolo con le sue splendide armonizzazioni di fiati ed archi, e Эрнесто sorride, sentendosi subito più leggero.

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Enrico arriva a Campo De' Fiori e qualcosa cattura la sua attenzione. Un trio di artisti di strada, chitarra, fisarmonica e contrabbasso, sta suonando qualcosa a ritmo sostenuto, dal sapore vagamente caraibico. Enrico si avvicina e riconosce il brano. E' choro, musica brasiliana, un pezzo di Ernesto Nazareth. Il fisarmonicista, barba incolta e una folta chioma di capelli raccolti in una coda, suona il tema principale, un unico fraseggio quasi senza respiro, con tocco delicato ma deciso e velocissimo.
Enrico resta immobile insieme al piccolo crocchio radunatosi intorno ai tre. I musicisti adesso improvvisano liberamente a turno e quando infine riprende il tema a velocità doppia, e si arriva alla frenetica conclusione, tutti intorno battono sonoramente le mani. Il trio si inchina, il fisarmonicista passa con un cappello tra i presenti e quando una mano gli allunga una banconota da venti, strizza gli occhi e riconosce il premier. I due si guardano per un momento, l'uno sbarbato e incravattato, l'altro trasandato e irsuto. Stavolta è l'uomo in cravatta a sorridere e inchinarsi. Poi si gira e se ne va. Enrico si chiede se dopo questa inaspettata mattinata anche trovarsi a litigare con i suoi rissosi colleghi dell'esecutivo sarà più sopportabile.

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Эрнесто si sveglia di nuovo con un violento sobbalzo. Ancora ubriaco maledice i dannati asteroidi. Guarda verso il quadro e vede una spia rossa lampeggiare, il bip frenetico dell'allarme nascosto dagli archi dell'orchestra a tutto volume. Il pilota automatico è fuori uso, i generatori spenti, e la capsula ruota pericolosamente su se stessa fuori controllo, attratta da un qualche campo gravitazionale.
L'adrenalina lo riporta alla realtà: sta precipitando. L'urto precedente deve aver fatto qualche danno al suo catorcio, e lui era troppo fuori di sé per accorgersene subito. Эрнесто guarda fuori, c'è un grosso pianeta azzurro. Vicino, troppo vicino. Non dovrebbe essere lì, non c'é niente del genere sulla rotta verso casa. Il radar dice “Terra”, e sinceramente era l'ultimo nome che avrebbe voluto leggere.
I terresti, quei trogloditi talmente idioti da convincersi di essere l'unica forma di vita intelligente del cosmo. Ogni tentativo di contatto era finito sempre male: i terrestri non capivano nessuna lingua, e puntualmente i messaggeri inviati venivano catturati e fatti a pezzetti in qualche stanza sotterranea. Come se non bastasse questi selvaggi continuavano da millenni ad ammazzarsi tra di loro, di solito per dominare qualche pezzo di terra in più, senza nemmeno la decenza di andarsi a cercare un nemico al di fuori del loro pianeta.
Da tempo il Consiglio aveva deliberato di ignorarli ed evitare ogni contatto con questo pianeta morente e bellicoso, condannando così la Terra a vivere nell'ignoranza e nell'arretratezza. Tra le altre cose, pensa con orrore Эрнесто, questo significa nessun rallentatore gravitazionale intorno all'atmosfera, come ha ogni altro pianeta evoluto, che possa frenare un asteroide o una cazzo di capsula impazzita entrate in rotta di collisione. Si getta quindi sui comandi e tirando con tutta la forza cerca di riportarla fuori dalla gravità terrestre, mentre l'esterno comincia già a diventare incandescente.

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Enrico è proprio fuori dal Palazzo, quando qualcuno comincia ad urlare qualcosa. Niente di nuovo, per carità. Da quando è nato questo strano governo c'è ogni giorno qualcuno che urla, fuori dal Palazzo. I cittadini non volevano questo, Enrico lo sa. Ma un contorto meccanismo legislativo, unito ad un ancora più contorto sistema elettorale, avevano prodotto questa anomalia.
In due parole, le tre forze principali si erano presi un terzo dei voti a testa e il partito di Enrico, accreditato di una facile vittoria, era invece riuscito nell'impresa, brillantemente sintetizzata dal vecchio segretario, di “non vincere, ma comunque arrivare primo”. Il che significava responsabilità di formare un governo, ma impossibilità di farlo da solo. Le alternative erano due: il nemico di sempre, politico controverso con il quale fino ad un mese prima ci si mandava serenamente affanculo ma disposto stavolta a collaborare per formare un governo, o un nuovo giullare che, invece, mandava serenamente affanculo sia una parte che l'altra e che di governare non aveva nessuna intenzione. La scelta era stata dunque obbligata, ma non era andata giù a nessuno, e le proteste di ogni colore politico sotto al Palazzo erano ormai il pane quotidiano.
Ma il tipo che urla oggi non lo fa contro il Palazzo, né contro Enrico. Urla contro il cielo, puntando il dito su una macchiolina di luce, un puntino minuscolo, che sembra diventare poco a poco più grande. Nel giro di qualche minuto le urla si moltiplicano e le teste della piazza iniziano a guardare tutte quello strano puntino luminoso.

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Эрнесто tira e bestemmia, ma la capsula sembra proprio non volergli dare retta. Ormai, dentro la densa atmosfera terrestre, è una palla di fuoco e lega di tantalio. Il freno di emergenza è inserito ma senza i rallentatori serve a poco. Эрнесто sa che se i generatori non ripartono subito si schianterà su quel pianeta. 
 
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Enrico guarda in alto, come tutti gli altri. Guarda il puntino che adesso è visibilissimo. Inspiegabilmente comincia a sentire, lontanissimi, un insieme di suoni. Sembrano note, ma non ne è tanto sicuro. Sono note strane. Sembrano formare una qualche melodia, ma con salti e dissonanze che non ha mai sentito prima. Enrico si sfrega le orecchie. Lo stress di questi giorni lo sta facendo impazzire.

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Эрнесто prova ancora una volta a far ripartire i generatori, stavolta prendendo a calci la plancia. Non che gliene importi di morire, sa già cosa lo aspetta, dopo. Eviterebbe però volentieri la seccatura della rigenerazione e dell'acquisto di una capsula nuova. Il prezioso impianto a pressione sonora continua a mandare le note della Sinfonica a volume altissimo e Эрнесто pensa a quanto gli costerebbe, coi prezzi attuali, comprarne uno simile. No, deve farcela. Deve evitare lo schianto.

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Enrico adesso la sente. Non era un allucinazione, la musica c'è davvero. Ed è qualcosa di straordinario. Le note si rincorrono, suonate da sconosciuti strumenti che sembrano formare una sorta di orchestra. Quelli che devono essere i fiati scandiscono la melodia, ritmata e a volte discordante, con note fuori posto che inspiegabilmente trovano un senso perfetto nell'insieme. Altri strumenti, simili a degli archi, ma più cristallini, contornano il tutto con accordi lunghi ed assurdi e virtuosismi che nessuna mano potrebbe eseguire a quelle velocità.
Intanto il puntino è diventato un sasso, e sembra proprio un asteroide che sta cadendo. La gente intorno comincia ad avere paura, corre via. La piazza si svuota. Ma Enrico non se ne accorge. Ha in mente solo quella musica.

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Эрнесто vede il pianeta talmente vicino che adesso distingue benissimo una città. E' abbastanza grande, con un anello, forse una via di trasporto, e un fiume che la taglia a metà. Cerca ancora di tenere su la capsula, e intanto pensa che se almeno riuscisse a cadere nell'acqua sarebbe più facile venire a prendere i suoi resti, una volta che la sua posizione di impatto sarà stata trasmessa al Centro di Controllo. Ma a giudicare da quello che vede sembra proprio che finirà in mezzo a quella città.

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Enrico, che ascolta con gli occhi chiusi, sente il volume della musica sempre più alto. Adesso è sicuro di non aver mai sentito nulla del genere prima. Riapre gli occhi solo per capire che quella musica viene dal puntino luminoso ora grande come un pallone da calcio, ricoperto di fuoco. Si sta avvicinando velocemente, proprio contro di lui.
Ha il tempo di pensare: “Merda”.
Poi più niente.

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Questo è tutto quello che ricordo.
Eravamo in giro, a qualche isolato dal Palazzo, io e mia moglie. Eravamo lì quando è cominciata quella strana musica. Prima lontana, come un soffio, un qualcosa di indefinito. Poi sempre più vicina e sempre più avvolgente.
Un po' spaventati, un po' incuriositi abbiamo girato di corsa l'isolato, mentre il volume di quella sinfonia diventava quasi insopportabile. Quasi rapiti dovevamo sapere cosa fosse.
Arrivati in piazza abbiamo fatto solo in tempo a vedere il premier in piedi con lo sguardo fisso in alto, anche lui incantato da quelle note. Subito dopo una palla di fuoco, poco più grande di un'automobile, è caduta sopra di lui ed è esplosa. La terra ha tremato per qualche istante e il colpo ci ha fatto cadere, storditi.
Dopo il boato assordante, con le orecchie che fischiavano, sentivamo ancora quella musica.
Dove fino a un istante prima si trovava Enrico Letta, capo del governo di larghe intese, si apriva una spaventosa voragine. Dall'enorme cratere si levavano nubi di fumo nero.


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Questo racconto è nato da un idea di Alberto Biraghi. Sul blog di Mauro Vanetti il link al contest.

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